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Il decreto Biondi. Cosa ha fatto Berlusconi quando era al governo

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Emanato durante il governo Berlusconi I, di fatto il decreto Biondi inficiava i risultati ottenuti dal pool di Mani Pulite.
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Pubblicato: 06/10/20

Se avessi saputo che fra gli indagati c'erano tanti uomini della
Fininvest non avrei proposto il decreto Biondi in quel momento.
Berlusconi, 4 agosto 1994

Salva-corrotti, salva-potenti, salva-ladri, emanato durante il primo governo Berlusconi, il decreto Biondi del 1994 ha collezionato svariati appellativi. Emanato per abolire la custodia cautelare per i reati finanziari e contro la Pubblica Amministrazione, di fatto il decreto Biondi inficiava i risultati ottenuti dal pool di Mani Pulite e scagionava i criminali eccellenti di Tangentopoli.

   Rimasto in vigore per 7 giorni, incontrò il dissenso dell'opinione pubblica e della maggioranza parlamentare. Decadde dopo che il parlamento non diede il via per la sua conversione in legge. Oggi il decreto Biondi, meglio conosciuto come decreto salva-ladri, fa parte della lunga lista delle leggi vergogna emanate durante i governi Berlusconi.

Il decreto Biondi

   Il 26 aprile 1994 scoppia il caso Fiamme Sporche con l'arresto del maresciallo della Guardia di  Finanza Francesco Nanocchio: il pool di Mani Pulite scopre che quasi tutte le grandi imprese milanesi pagano tangenti ai finanzieri per truccare le verifiche fiscali. La rete di rapporti costruiti sulle tangenti è enorme, nell'arco di un anno gli indagati arrivano a oltre 600, 130 tra ufficiali e sottufficiali, 500 tra manager e imprenditori. Tra questi ultimi c'è anche Silvio Berlusconi, che solo pochi mesi prima aveva palesato la volontà di entrare in politica.

   Il primo governo Berlusconi nasce il 10 maggio 1994, a due settimane dallo scandalo che ha coinvolto le Fiamme gialle. Governa con il supporto decisivo della Lega Nord e di Alleanza Nazionale, piazza al Ministero degli Interni Roberto Maroni mentre per quello di Grazia e Giustizia sceglie Alfredo Biondi, storico leader del Partito Liberale passato poi all'Unione di Centro.

   Le prime azioni del governo Berlusconi si concentrano sulla giustizia. Il premier propone al guardasigilli Biondi di rivoluzionare la custodia cautelare, e di farlo attraverso un decreto-legge apposito. Biondi tuttavia preferirebbe optare per un disegno di legge da proporre in Parlamento, poiché l'opposizione è contraria all'uso del decreto-legge per varare misure innovative in tema di giustizia1. Berlusconi non ci sta, insiste su questo strumento, si dice perché tema per le sorti del fratello Paolo già finito agli arresti domiciliari a febbraio per tangenti (sarà poi assolto). Biondi accetta, forse rassicurato dal clima politico generale: un decreto meno, o un decreto di più, non può fare questa grande differenza.

   All'alba della seconda Repubblica i decreti-legge grandinano. Dalla costituente fino a tangentopoli i governi vi hanno fatto ricorso via via in modo crescente, quasi maniacale, essendo questi strumenti indicati – costituzionalmente – per scavalcare tempi e reticenze parlamentari. Nella XII legislatura durata appena due anni, se ne sono varati 658, 191 dei quali durante i 9 mesi del governo Berlusconi I. Una raffica di 21 decreti-legge al mese.

   Tra l'altro risale soltanto a un anno prima il tentativo di far passare una legge simile. Nel marzo 1993 Giovanni Conso, ministro della Giustizia del governo Amato, mentre Tangentopoli imperversa emana un decreto-legge retroattivo sulla depenalizzazione del finanziamento illecito dei partiti.

   Superate quindi le esigue riluttanze, al ministero della Giustizia si formula il decreto legge n. 440 del 14 luglio 1994, altrimenti conosciuto come decreto Biondi o decreto salva-corrotti, salva-potenti, salva-ladri, che con effetto immediato segreta l'avviso di garanzia, rende accessibile il registro degli indagati agli interessati che ne avanzino richiesta, salva dal carcere preventivo i colletti bianchi, sostituendo la custodia in carcere con gli arresti domiciliari. Per tutti i reati tipici di Tangentopoli quali corruzione, peculato, concussione, abuso d'ufficio, finanziamento illecito, falso in bilancio, frode fiscale, truffa ai danni dello Stato e di enti pubblici, sono di fatto abolite le manette. Chi sta in galera esce, e chi deve entrarci rimane fuori.

   Il decreto Biondi viene discusso in consiglio il 13 luglio. Il guardasigilli ne annuncia l'iniziativa fin dall'apertura della riunione. Qualcuno è perplesso, per esempio il ministro della Sanità, che bisbiglia: “Qui se facciamo un decreto va a finire che esce De Lorenzo e scoppia la rivolta”. Il riferimento è all'onorevole De Lorenzo Francesco, ex ministro alla Sanità, arrestato il 12 maggio 1994 per aver incassato tangenti da industrie farmaceutiche. Biondi capta le diffidenze dei colleghi e incalza, chiede se tutti siano convinti sul procedere per decreto-legge. Nessuno obietta e il decreto passa all'unanimità con votazione nominale. Alle 8 del mattino successivo il testo è sulla scrivania del Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro. Il presidente ne prende visione, avrebbe preferito anche lui un disegno di legge ma firma.

   Il 14 luglio la stampa nazionale tace, concentrata sui risultati sportivi della partita Italia-Bulgaria. I magistrati della procura di Milano sono invece riuniti in assemblea nell'ufficio di Francesco Borrelli, padre del pool di Mani Pulite. Qui esaminano il decreto Biondi e rimangono sconcertati. Una manciata di ore per decidere sul da farsi e il pool, dopo anni di indagini serrate, frana nella voce incerta di Antonio Di Pietro che all'ombra del palazzo di Giustizia di Milano, davanti ai cronisti riunitisi, rilascia il seguente comunicato: 

   Fino ad oggi abbiamo pensato che il nostro lavoro potesse servire a ridurre l'illegalità nella società. Per questo abbiamo lavorato intensamente per servire fino in fondo il paese, convinti che la necessità di far osservare la legge nei confronti di tutti fosse generalmente condivisa.
   L'odierno decreto legge, a nostro giudizio, non consente più di affrontare efficacemente i delitti su cui abbiamo finora investigato. Infatti persone raggiunte da schiaccianti prove in orde a grave fatti di corruzione non potranno essere associate al carcere neppure per evitare che continuino a delinquere o a tramare per impedire la scoperta dei precedenti misfatti, talora persino comprando gli uomini a cui avevamo affidato indagini nei loro confronti.
   Come magistrati abbiamo applicato e applicheremo le leggi quali che esse siano. Pertanto, come prescritto dal decreto legge, abbiamo chiesto all'Ufficio del giudice per le indagini preliminari di sostituire la custodia in carcere nei confronti di tutte le persone detenute nell'ambito delle indagini c.d. “mani pulite”.
   Tuttavia, quando la legge, per le evidenti disparità di trattamento, contrasta con i sentimenti di giustizia e di equità, diviene molto difficile compiere il proprio dovere senza sentirsi strumento di ingiustizia.
   Abbiamo pertanto informato il Procuratore della Repubblica della nostra determinazione di chiedere al più presto l'assegnazione ad altro e diverso incarico, nel cui espletamento non sia stridente il contrasto fra ciò che la coscienza avverte e ciò che la legge impone2.

Milano 14 luglio 1994

Antonio Di Pietro
Piercamillo Davigo
Francesco Greco
Gherardo Colombo

   La notizia delle dimissioni del pool di Mani Pulite arriva in serata al Senato dove Biondi sta rispondendo alle interpellanze sul decreto di custodia cautelare. L'atmosfera in aula diventa subito incandescente. Lapidario il capogruppo del Pds Salvi che inveisce contro il guardasigilli: “Siete riusciti a fare quel che non è riuscito a Craxi: allontanare il pool dalle indagini di Tangentopoli...”. Su effetto del decreto Biondi e delle dimissioni di Di Pietro e colleghi, subito si accendono i contrasti partitici, con la sede di Milano della Lega Nord tappezzata di manifesti anti-Berlusconi e Alleanza Nazionale che, attraverso Fini, accusa il premier di trovarsi in una posizione indifendibile3. Il governo scricchiola.

   Il giorno seguente, il decreto Biondi è la notizia principale dei giornali nazionali; l'opinione pubblica si infiamma, scende nelle piazze mentre i politici – anche quelli che hanno votato a favore del decreto – tornano sui propri passi. È il caso di Roberto Maroni, che il 16 luglio dichiara al Tg3 “che questo decreto è diverso da quello che c'era stato prospettato la sera in cui lo abbiamo approvato. […] Io nel corso del Consiglio dei Ministri […] ho chiesto allora garanzie […] che col nuovo testo De Lorenzo e soci non sarebbero usciti dal carcere e mi era stato assicurato che non sarebbero usciti”.
In soldoni, Maroni denuncia di essere stato ingannato da Berlusconi e Biondi. “Mi sono fidato delle affermazioni e delle garanzie datemi quella sera. Ho sbagliato, ho fatto male”.

“Il problema di questo decreto non è solo il fatto che non siano compresi reati di corruzione e concussione, ci sono altre parti del decreto verificato che complessivamente depotenziano l'azione dello Stato contro la criminalità organizzata.”
Roberto Maroni

   Non si fa attendere la risposta di Berlusconi. Il premier intima al ministro degli Interni di smentire o dimettersi e da Palazzo Chigi esce un dispaccio di agenzia intitolato “Berlusconi si attende le scuse del ministro Maroni entro stasera”. Segue il guardasigilli che tuona minacciando querela: “Non mi bastano le scuse di Maroni, ha detto che l'ho imbrogliato e alla sua calunnia risponderanno i magistrati”; per Biondi si può frodare lo Stato e restare impuniti ma non si può spergiurare. Le menzogne sì – secondo il ministro della Giustizia – ma solo se sui resoconti di bilancio.

   Le bagarre proseguono, Biondi si dichiara pronto a dimettersi qualora il parlamento o gli alleati di governo LN e AN impongano una revisione del decreto. Berlusconi gli promette che manterrà la linea della fermezza: il decreto Biondi non si tocca.

   Intanto Mani Pulite si dissangua e le carceri vengono svuotate. Il Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria calcola che saranno in totale 4000 detenuti a dover lasciare le celle. In data 16 luglio ammontano a 472 i detenuti scarcerati per l'effetto del decreto Biondi, 53 dei quali in carcere per delitti contro la Pubblica amministrazione (35 vanno agli arresti domiciliari, 18 sono liberati). In data 18 luglio 1994 il numero degli scarcerati si aggira attorno a 1051 o 1162, 160 o 124 dei quali inquisiti per reati contro la Pubblica amministrazione4

   Lasciano le patrie galere personaggi eccellenti. Tra i primi ci sono Salvatore Abbruzzese, ex parlamentare arrestato per corruzione, che da Poggioreale ottiene la libertà senza passare neppure per gli arresti domiciliari; poi l'ex ministro della Sanità Francesco De Lorenzo (il cui avvocato era il sottosegretario alla Giustizia Domenico Contestabile, tra coloro che hanno materialmente redatto il decreto Biondi); e ancora Giulio Di Donato, dal 1989 al 1992 vicesegretario del Psi, arrestato per corruzione. Si aggiungono Giancarlo Rossi, agente di cambio “in odor di traffici e servizi segreti”5 e amico di Cesare Previti (ministro della Difesa nel governo Berlusconi I), arrestato per il caso delle tangenti Enimont il 20 giugno 946; Pierr De Maria, coinvolta con il marito Duilio Poggiolini (tessera P2 nr. 961) e De Lorenzo nello scandalo delle tangenti farmaceutiche; Antonino Cinà, medico di Riina, detenuto all'Ucciardone per truffa, falso e corruzione. Come il sangue da una arteria recisa, il popolo di Tangentopoli sgorga dalle celle aperte. È la volta del faccendiere Gaetano Di Capua, che approfitta degli arresti domiciliari regalatigli dal decreto per estradare a Caracas verosimilmente portandosi dietro 40 miliardi di lire rubate ad alcune società in fallimento7.

   Sempre sull'onda del decreto Biondi, dal carcere militare di Peschiera del Garda escono i finanzieri coinvolti nel caso Fiamme Sporche: in totale una decina, compreso il generale Giuseppe Cerciello. E ancora Calogero Calì, legale della Fininvest nella battaglia per la Mondadori, arrestato l'11 luglio per una mazzetta da 50 milioni allungata al maresciallo della finanza Livio Ballerini; Nello Polese, sindaco di Napoli tra il '90 e il '93, arrestato per tangenti. E altri ancora. Troppi.

   Come non bastasse, il decreto Biondi diviene un caso internazionale. Wall Street Journal e New York Times seguono la vicenda e l'economia italiana, alla fine, avverte il colpo. Su effetto del decreto Biondi e dei risultanti contrasti politici la lira subisce la devalutazione, oltrepassando la tanto temuta “quota mille” nei confronti del marco tedesco. Per giorni la borsa registra quotazioni impazzite, i titoli di Stato oscillano frenetici, qualcuno si chiede se Palazzo Chigi non abbia ignorato in toto le possibili ripercussioni del decreto Biondi sul mercato8. La fiducia nel governo precipita.

   Con il paese alla deriva, mentre l'opinione pubblica e la maggioranza del parlamento si collocano dalla parte della magistratura, di colpo Berlusconi compie una rapida retromarcia. Il decreto – dice il premier – non è immodificabile. Dichiara anzi che su corruzione e concussione “il mio parere è opposto alla formulazione finale”. Oramai Biondi rimane il solo a difendere quel decreto che porta il suo nome.

   In questo caotico clima politico scandito da voltafaccia e insulti (“Orbo”, Biondi a Maroni; “Imbroglioni”, Maroni al governo; “Assassini”, Sgarbi ai magistrati, che voleva per forza dire la sua), il 19 luglio la Commissione per gli affari costituzionali si riunisce per valutare i presupposti dell'urgenza del decreto Biondi. Votano 29 no, 2 sì, 7 astenuti: il decreto non ha basi costituzionali valide. Il 21 luglio, chiamata a votare, la Camera conferma quanto deciso in commissione ed esprime 418 no e 33 sì, 41 gli astenuti: il tanto famigerato decreto Biondi decade per mancata conversione.

   In una nota di qualche giorno dopo, Biondi fa sapere che a essere stati rimessi in libertà o ad aver ottenuto gli arresti domiciliari, sono stati 2.739 detenuti, 164 dei quali indagati per delitti contro l'amministrazione pubblica. Alla decadenza del decreto Biondi, degli oltre 2mila detenuti, sono stati arrestati di nuovo solo 539. Per il guardasigilli è la prova che tutti gli altri si trovavano in carcere ingiustamente.

Il seguito del salvaladri: la riforma Cartabia

   Il 19 ottobre 2021 è entrata in vigore la prima parte della c.d. riforma Cartabia, dal nome della ministra della Giustizia. Data la natura di alcuni cambiamenti previsti dalla riforma, in molti la hanno paragonata - in particolare nella sua prima versione - al decreto salvaladri di Biondi. Il dibattito in merito è risultato accesissimo durante l'estate 2021.

 
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Fonti:
 
1 la Repubblica 5/7/1994 "Il bisturi di Biondi su mani pulite"
2 l'Unità 15 luglio 1994 pag 3
3 la Repubblica, 18 luglio 1994, “È un decreto indifendibile”
4 l'Unità, 18 luglio 1994, pag.5 
5 l'Unità, 28 giugno 1994, pag 10
6 L'Espresso n.46-2002
7  l'Unità, 28 luglio 1994, pag.14
8 la Repubblica 19/7/1994 "La crisi politica gela piazza affari e dimezza gli scambi"
9 Questi dati sono stati presi dal seguente articolo di la Repubblica, 8 agosto 1994, "Decreto salva - ladri Biondi lo difende". Tuttavia, nel libro Ad Personam (2010, chiarelettere), Marco Travaglio scrive che a esser stati rilasciati furono 2764 detenuti (di cui 140 arrestati per corruzione, oltre 200 per reati finanziari e più genericamente tipici dei colletti bianci).
   Su la Repubblica del 24 gennaio 1999 viene citato l'allora ministro della Giustizia, Diliberto: "[...] fecero uscire, da un giorno all'altro, dal carcere 2764 autori di episodi di microcriminalità scarcerati, pur di far uscire 140 imputati di corruzione e concussione".
   In riferimento al dato sui detenuti riarrestati a seguito del decadimento del decreto salvaladri, nel libro Mani Pulite - la vera storia (2014, chiarelettere) viene riportata una dichiarazione di Alfredo Biondi: "Gli ex detenuti riarrestati furono soltanto un centinaio".

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